L’invincibile (?!?) scudo delle misure protettive nella crisi di impresa
Nell'ambito delle procedure di composizione della crisi di impresa, un ruolo particolare è occupato dalle...
L’assoggettabilità o meno all’IVA delle somme percepite (o corrisposte) latu sensu a titolo di risarcimento è una questione che deve essere valutata attentamente nel momento della definizione “transattiva” di una vertenza, per evitare di incorrere in pesanti sanzioni o di dover far ricorso a procedure di rivalsa al fine di recuperare quanto pagato indebitamente.
Esaminiamo alcune fattispecie concrete in relazione, ovviamente, a rapporti negoziali rilevati ai fini dell’imposta in esame, ossia in cui sussistono i presupposti (oggettivo, soggettivo e territoriale) per l’applicazione dell’IVA.
La clausola penale, insieme alla caparra, costituisce un patto accessorio del contratto, che viene inserito dalle parti al fine di rafforzare il vincolo contrattuale, ed ha una triplice funzione: i) coercitiva, ii) risarcitoria, determinando in via preventiva, convenzionale e forfettaria la misura del risarcimento per l’inadempimento, e iii) punitiva, nel senso che il debitore inadempiente è tenuto al pagamento della penale indipendentemente dalla prova del danno effettivo subito.
Il pagamento che consegue in caso di inadempimento dalla stessa clausola è escluso dal regime impositivo dell’I.V.A., ai sensi dell’articolo 15, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, che stabilisce che “Non concorrono a formare la base imponibile (…) le somme dovute a titolo di interessi moratori o di penalità per ritardi”.
Da tale disposizione si evince che le somme corrisposte a titolo di penalità (per ritardo o inadempimento) esulano, dunque, dal campo di tale imposta (cfr. risoluzione ministeriale del 6 dicembre 1989, n. 550293) e, pertanto, sono soggette all’imposta di registro (art. 9 della Tariffa Parte Prima del Testo Unico dell’imposta di registro, cfr. risoluzione ministeriale del 18 giugno 1990, prot. n. 310388).
È l’art. 34 della l. 392/78 a stabilire che in caso di cessazione del rapporto di locazione relativo agli immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello abitativo che non sia dovuta a risoluzione per inadempimento o disdetta o recesso del conduttore o ad una delle procedure concorsuali di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, il conduttore ha diritto ad una indennità pari a diciotto mensilità dell’ultimo canone corrisposto (per le attività alberghiere l’indennità è pari a ventuno mensilità)”.
L’orientamento sul punto è contrastante. Da una parte l’Agenzia delle Entrate, con risoluzione n. 73 del 3 giugno 2005, ritiene infatti che l’indennità costituisca il corrispettivo di una prestazione di servizi e sia, dunque, soggetta ad iva. Un diverso orientamento (AIDC, vd. norma di comportamento 1 marzo 2014, n. 190), invece, ritiene che l’indennità per la perdita dell’avviamento che il locatore è tenuto a corrispondere al conduttore al termine della locazione, ai sensi dell’articolo 34 della legge 392/78, ha natura di indennizzo e come tale è esclusa dall’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, in quanto sia carente di effettiva controprestazione da parte del conduttore.
La fattispecie è quella prevista dall’art. 1591 c.c., ossia il caso in cui il conduttore ritardi la riconsegna dell’immobile locato, ed è, dunque, tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggiore danno.
Una recente pronuncia della Cassazione (n. 22592 del 3 ottobre 2013) ha stabilito a riguardo che l’art. 1591 c.c. disciplina un’obbligazione risarcitoria da inadempimento contrattuale, che, sostituendosi a quella contrattuale di pagamento del canone di locazione, costituisce un debito di valore. Ne consegue che, ai sensi dell’art. 15 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, non è dovuta l’IVA sull’importo dovuto dall’occupante, non più a titolo di canone, ma di risarcimento per la protratta occupazione (in senso contrario, vd. Cass. civ., sez. III, 14 febbraio 2006 n. 3183).
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