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La liquidazione controllata ha come obiettivo principale quello di monetizzare l’intero patrimonio del soggetto sovraindebitato e di utilizzare il ricavato per il soddisfacimento dei creditori, sempre nel rispetto delle varie cause di prelazione.
La procedura presenta per questo una struttura simile a quella della liquidazione giudiziale, basandosi essenzialmente sull’attività di un organo della procedura, ossia il liquidatore (ndr: incarico spesso affidato a colui che ha svolto il ruolo di gestore della crisi), al quale viene attribuito il potere di amministrazione e disposizione del patrimonio del debitore.
Dalla liquidazione controllata sono esclusi i crediti impignorabili ai sensi dell’articolo 545 del codice di procedura civile, i crediti aventi carattere alimentare e di mantenimento, gli stipendi, le pensioni, i salari e ciò che il debitore guadagna con la sua attività nei limiti, indicati dal giudice, di quanto occorre al mantenimento suo e della sua famiglia, i frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi (salvo quanto previsto dall’art. 170 c.c.) e le altre cose che non possono essere pignorate per legge.
La procedura della liquidazione controllata ha natura concorsuale (e non ha invece carattere negoziale, come la composizione negoziata) e, al di fuori delle esclusioni di cui si è detto, ha comunque carattere universale riguardando tutti i beni presenti e futuri del debitore.
Prima dell’entrata in vigore del Codice della Crisi, la materia del sovraindebitamento era disciplinata dalla legge n. 3/2012 (“Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento“), il cui articolo 14-undecies stabiliva che tutti i beni sopravvenuti nei quattro anni successivi al deposito della domanda di liquidazione di cui all’articolo 14-ter costituivano oggetto della stessa liquidazione.
Sebbene il contenuto di questa norma non sia stato ripreso nel Codice della Crisi, il carattere universale della liquidazione controllata richiede che vengano messi a disposizione della procedura tutti i beni del sovraindebitato, anche per effetto dello spossessamento previsto dall’art. 270 CCII.
Fatte queste premesse, un credito particolare da esaminare nell’ambito della liquidazione controllata è il TFR.
Il TFR, o trattamento di fine rapporto, matura a favore del lavoratore anno dopo anno, in relazione al lavoro prestato e all’ammontare della retribuzione e costituisce un diritto di credito del lavoratore stesso nei confronti del datore di lavoro, in sostanza una retribuzione, il cui pagamento, però, è differito nel tempo.
Il diritto si concretizza quantitativamente anno per anno in modo progressivo, secondo il meccanismo di determinazione previsto dall’art. 2120 c.c.
Il TFR è quindi un credito certo e liquido ma che diventerà tuttavia esigibile, cioè concretamente incassabile, solo al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
Il TFR, che può essere oggetto di cessione volontaria ex art. 1260 c.c., rientra nella categoria delle “indennità relative al rapporto di lavoro” richiamata nell’art. 545 c.p.c. e può essere oggetto di pignoramento nella misura di un quinto, al pari delle altre somme dovute in ragione del rapporto di lavoro, con assegnazione differita al momento della sopravvenuta esigibilità.
Nell’ambito della liquidazione controllata il richiamo all’art. 545 c.p.c. comporta la possibilità di acquisire unicamente la quota di 1/5 del TFR, risultando invece impignorabili i restanti 4/5.
Il problema del TFR nell’ambito della procedura di liquidazione controllata riguarda, più precisamente, la questione della sua esigibilità.
In particolare, il TFR, o meglio la quota di 1/5 dello stesso, può rientrare, quale utilità futura, nella massa da liquidare solo se diviene esigibile entro tre anni dall’apertura della liquidazione, termine massimo fissato per l’esdebitazione di diritto.
Diverso è, invece, il caso in cui il sovraindebitato, prima della liquidazione controllata, abbia richiesto ed ottenuto un anticipo sul TFR.
Tali somme, che rappresenterebbero sempre una forma di retribuzione differita del lavoratore, se da un lato potrebbero essere considerate come bene sopravvenuto destinabile alla procedura, dall’altro dovrebbero comunque essere mantenute nella disponibilità del sovraindebitato nei limiti fissati dal giudice.
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